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IO È UN ALTRO / WORDS



[ENG] the ability to express one’s self                                                                 _mike watson (uk)

‘I  is an other’ is Brazilian-Italian artist César Meneghetti’s response to the difficulties always presented to the artist who seeks to work with the wider community. Since March 2010 Meneghetti has worked with the Community of Santo Egidio in Rome, as part of an ongoing programme in which artists work with physically and mentally disabled people. Aside from the enormous benefits one can obviously imagine coming out of such interactions, there are of course a number of questions raised regarding the appropriateness of art projects carried out with and amongst disadvantaged people, whether they be disabled, homeless, mentally ill, prisoners, immigrants, or from any other of minority population you could care to imagine. The problem is it can all too easily appear that the artist - in general - exploits the community they work with, making of it a subject for their own gain.
This perception is perhaps the inevitable outcome of a democratizing process that has its roots in the work of Marcel Duchamp (1887-1968) and Joseph Beuys (1921-1986), who argued respectively that anything can potentially be art and that ‘we are all artists’. One outcome of this is naturally that the tools of the artist, which enable self-exploration and empowerment, are made available to all. However, the problem remains one over who is designating and channeling the artistic experience. The problem with Beuys’s proclamation that ‘we are all artists’ was Beuys’s seeming need to always be the particular artist making that same proclamation: Whereas if we were truly all artists anyone would be able to declare this truth. Two problems arise here, firstly many people simply do not want or are not able – due to lack of education – to be involved in artistic discourse. Secondly, if we humans are indeed all artists, there would be no art to speak of, or at least, being an artist would be no more novel than being a human, and the statement ‘we are all artists’ would therefore become banal. The solution to these problems arguably resides in a dis-empowerment of the artist and a total democratization of the term ‘art’, to the extent that the term itself would be secondary to self-exploration. In this way artistic discourse whilst by necessity being initiated by the artist, would be open to interpretation by all, to such an extent that the privileged role of the artist as such would be effaced.
Naturally such a process involves inherent contradictions that cannot be easily overcome. For one, it would require a degree of knowledge of contemporary artistic discourse on the part of participants. For now there is no choice but to let the artist take control, so that this discourse can be transmitted. Yet the degree to which the artist subverts their control of artistic discourse and lets non-specialist participants lead can vary greatly. When dealing with marginalized communities, particularly where speech, physical movement and thought can be impaired (as with the disabled community) giving artistic control over to others becomes a complex issue, but an essential component in understanding how the artist may better deal with the wider community in general. For in working with people who may not grasp the contemporary art discourse in the same way that contemporary art practitioners do, and who may not be able to easily communicate their feelings about that discourse, the artist is forced to follow his new collaborators. It is in this sense that César Meneghetti says “I is an other”, for we are all radically different to the other that we perceive. We are all the “other”.
Central to the project ‘I is an other’ has been the filming of each individual participant, invited to say what they want, but also what they can. For a range of disabilities can impair speech, even for the apparently ‘able’, non-disabled population. Speech, writing, creative activity are all-vital forms of communication which make us human, and which arguably make us ‘artists’. Yet these forms must constantly be learned, tried out and overcome. But it is ultimately how we all communicate differently which is of importance, how we are all, above everything, individuals within a shared space. Throughout the video works (videocabina #3, photographic colaboration by Beatriz Franco and editing by Yael Leibel, “kalòs>aghatòs”, “ex-sistentia”, “assai mi duole ancora”, 2011, “luvstory” (audio instalation), “reperti” (documentation), “I\O”, photographic serie with Gli Amici (2012), the new series (sette, in- visibilità e passaggi 2012, moviment direction by Cristina Elias) and the documentary film (notes on I/O_ EU É UM OUTRO, 2010-2012 directed by Altera Studio), which follow the creative process during ‘I is an other’ one sees individuals gain the confidence to communicate. This is not the documentation of the disability of a group of people by an able artist. It is the documentation of an ability: the ability to express one’s self.

[IT] l’abilità di esprimere il proprio io                                                                  _mike watson (uk)   

I/O_ IO E’ UN ALTRO è la risposta dell’italo-brasiliano César Meneghetti alle difficoltà con cui si confronta un artista che intende lavorare con la comunità intesa in senso ampio. Dal marzo 2010, Meneghetti ha operato con i laboratori d’arte della Comunità di Sant’Egidio a Roma, nel contesto di un progetto in progress all’interno del quale alcuni artisti hanno intrapreso una collaborazione con disabili fisici e mentali. Al di là del vantaggio che può nascere da un’interazione di questo tipo, rimangono tuttavia aperte una serie di questioni riferibili all’attribuzione di opere d’arte realizzate con o includendo persone socialmente “svantaggiate”, siano esse disabili fisici, mentali, senza fissa dimora, immigrati, o appartenenti a qualsiasi altra “minoranza”. Si potrebbe con facilità immaginare che l’artista in generale esplori la comunità con la quale lavora, trasformandola in uno strumento a suo profitto.
Questa prospettiva è talvolta il risultato inevitabile di un processo di democratizzazione che ha le sue origini nell’opera di Marcel Duchamp (1887-1968) e Joseph Beyus (1921-1986), i quali sostennero che tutto può potenzialmente essere arte e che ‘tutti siamo artisti’. Questo presuppone naturalmente che gli strumenti degli artisti che consentono l’auto-esplorazione e la legittimazione (empowerment) siano a disposizione di tutti. Rimane comunque aperto il problema su chi è che progetta e dirige l’azione artistica. L’asserzione di Beyus, ‘tutti siamo artisti’, pone un problema poiché è l’artista stesso che lo afferma. Il problema è che se fossimo tutti realmente artisti, chiunque potrebbe essere in grado di dichiarare questa verità. Qui sorgono due problemi, il primo è che molta gente non vuole o non è in grado – per mancanza di strumenti culturali – di essere coinvolta nel discorso artistico. Il secondo è che se tutti gli esseri umani fossero realmente artisti, non esisterebbe arte da discutere; o essere artista non vorrebbe dire altro che esistere quale essere umano e l’affermazione ‘siamo tutti artisti’ diventerebbe un assunto banale. La soluzione di questi problemi è senza dubbio nella delegittimazione (dis-emporwerment) dell’artista e nella totale democratizzazione del termine “arte”, cosicché questo concetto di per sé potrebbe essere passibile di auto-esplorazione. In questo contesto, il discorso artistico iniziato per necessità dall’artista sarebbe aperto all’interpretazione di tutti, con tanta intensità da cancellare il ruolo privilegiato dell’artista in quanto tale.
Naturalmente un simile processo comporta in sé contraddizioni non facilmente superabili. Innanzitutto richiederebbe ai partecipanti un certo grado di conoscenza del discorso artistico contemporaneo. Per ora non c’è altra scelta se non lasciare che sia l’artista a prendere il controllo perché questo discorso possa essere trasmesso. E il grado con il quale l’artista sovverte il proprio controllo sull’azione artistica e permette ai partecipanti non specialisti di condurla può variare enormemente. Quando l’artista lavora con comunità marginali, e in particolare quando parola, movimenti fisici e pensiero possono essere compromessi (come nel caso di un gruppo di persone con disabilità), cedere il controllo artistico ad altri diventa un discorso complesso, ma è una prova essenziale di come l’artista possa confrontarsi meglio con la più larga e generale comunità. Lavorando con persone che non afferrano il discorso artistico contemporaneo nello stesso modo in cui lo gestiscono i professionisti dell’arte contemporanea e che forse non facilmente riescono a comunicare il loro pensiero su di esso, l’artista è costretto a seguire i suoi nuovi collaboratori. E’ in questo senso che César Meneghetti dice I/O_ IO E’ UN ALTRO perché siamo tutti radicalmente diversi dall’altro che percepiamo. Noi siamo tutti “l’altro”.
Centrale nel progetto ‘Io è un altro’ è stata la ripresa filmata di ogni singolo partecipante chiamato a parlare come vuole e come può. Varie disabilità possono compromettere l’espressione verbale, anche per chi è apparentemente ‘capace’, per chi è ‘non disabile’. Parola, scrittura, attività creativa sono tutte forme vitali di comunicazione che ci fanno umani e che ci fanno, in maniera discutibile, “artisti”. E queste forme devono essere continuamente imparate, provate e superate. E in fondo noi tutti comunichiamo in modi diversi e tutti rilevanti – e tutti noi siamo alla fine individui in uno spazio comune. Attraverso le opere video (“videocabina #3”, con la collaborazione alla fotografia di Beatriz Franco e al montaggio di Yael Leibel, “kalos > aghatos”, “ex- sistentia”, “assai mi duole ancora”, 2011, “luvstory” (istallazione audio), reperti (documentazione di percorso), le serie fotografiche “I\O” insieme a gli “Amici” (2012), le nuove serie (sette, in-visibilità e passaggi 2012, direzione di movimento di Cristina Elias) ed il film documentario (Note su I/O_ IO E’ UN ALTRO per la regia di Altera Studio) incluse in ‘IO È UN ALTRO’ si vedono persone che acquisiscono coraggio nel comunicare. Non si tratta di una documentazione sulla disabilità di un gruppo di persone realizzata da un abile artista. E’ la documentazione di un’abilità: l’abilità di esprimere il proprio Io.


[BR] a habilidade de expressar o proprio eu                                                          _mike watson (uk)

‘Eu é um outro’ é a resposta do ítalo-brasileiro César Meneghetti às dificuldades que se apresentam a um artista que pretende lidar com a comunidade de uma forma mais ampla. Desde Março de 2010, Meneghetti tem trabalhado com a comunidade de Santo Egídio em Roma, no contexto de um projeto in progress, no qual artistas trabalham com portadores de deficiências físicas e mentais. Além dos óbvios benefícios resultantes de uma interação como essa, há também uma série de questões referentes à apropriação de obras de arte realizadas com ou incluindo pessoas socialmente “desavantajadas”, sejam elas deficientes físicos, mentais, homeless, imigrantes ou pertencentes a quaisquer minorias que se possa imaginar. O problema é que facilmente se pode pensar que o artista em geral, explora a comunidade com a qual trabalha, transformando-a num instrumento para proveito próprio. 
Essa perspectiva é talvez o resultado inevitável de um processo de democratização que teve suas origens na obra de Marcel Duchamp (1887-1968) e Joseph Beuys (1921-1986), os quais argumentaram respectivamente que tudo pode potencialmente ser arte e que ‘todos somos artistas’. Um resultado disto é, naturalmente, que as ferramentas dos artistas que permitem a auto-exploração e capacitação (empowerment), são disponibilizadas à todos. Entretanto, o problema permanece em torno de quem designa e canaliza a experiência artística. A problemática referente à afirmação de Beuys “somos todos artistas” se convenciona na aparente necessidade de ser sempre o artista em particular, que está fazendo esta mesma afirmação. Ao passo que se fôssemos todos realmente artistas, qualquer um seria capaz de declarar essa verdade. Aqui surgem dois problemas, o primeiro, diversas pessoas simplesmente não querem ou não conseguem - devido ao baixo nível educacional - se envolver no discurso artístico. Segundo, se nós humanos fossemos realmente todos artistas, não haveria arte para ser discutida, ou ao menos ser um artista não seria nada além do que ser um humano, e portanto a afirmação “somos todos artistas” se tornaria banal. A solução para esses problemas, sem dúvida reside na ilegitimização  (dis-empowerment) do artista e na total democratização do termo “arte”, numa tal medida que esse conceito em si mesmo, seria passível de auto-exploração. Nesse contexto, o discurso artístico enquanto sendo iniciado pelo artista por necessidade, estaria aberto à interpretação de todos, numa intensidade tamanha que o papel privilegiado do próprio artista, enquanto tal, seria cancelado.
Logicamente um tal processo envolve contradições inerentes que não são facilmente superadas, já que isso exigiria um certo nível de conhecimento do discurso artístico contemporâneo da parte dos participantes. Por enquanto não há outra opção a não ser deixar o artista assumir o controle de modo que esse discurso possa ser transmitido. Entretanto, o nível em que o artista subverte o seu controle do discurso artístico e permite a participantes não-especialistas liderar pode variar enormemente. Ao lidar com comunidades marginalizadas, particularmente quando discurso, movimento físico e pensamento podem ser comprometidos (como no caso de deficientes), ceder o controle artístico aos outros transforma-se numa questão complexa, porém uma componente essencial da compreensão de como o artista pode tratar com a comunidade em geral. Ao trabalhar com pessoas que provavelmente não apreenderão o discurso artístico contemporâneo da mesma maneira que os praticantes de arte contemporânea o fazem e que não comunicariam os seus sentimentos sobre esse discurso facilmente, o artista é forçado a seguir os seus novos colaboradores. E é nesse sentido que César Meneghetti diz “Eu é um outro”: dado que nós todos somos radicalmente diferentes do outro que enxergamos. Nós somos todos o ‘outro’. 
Central ao projeto “Eu é um outro” tem sido a filmagem de cada indivíduo participante, convidado a dizer o que quer, mas também como pode. Dado que uma série de deficiências pode desnaturar o discurso, mesmo no que se refere à população dos aparentemente “capazes” (able), dos “não-deficientes” (non-disabled). Discurso, escritura, atividade criativa são todas formas vitais de comunicação que nos fazem humanos e que, discutivelmente, nos fazem “artistas”. Entretanto, essas formas devem ser constantemente aprendidas, experimentadas e superadas. Mas é finalmente como todos nós comunicamos de formas diferentes que é importante - como todos nós somos, acima de tudo, indivíduos dentro de um espaço comum. Ao longo das obras em vídeo “videocabina #3”, colaboração à fotografia de Beatriz Franco e à montagem de Yael Leibel, “kalòs>aghatòs”, “ex- sistentia”, “assai mi duole ancora”, 2011, “luvstory” (instalação audio), “reperti” (documentação de percurso), da série fotográfica “I\O”, junto a Gli Amici (2012), a nova série (“sette”, “in-visibilità”, “passaggi”, 2012, com direção de movimento de Cristina Elias) e do documentário (notas sobre I/O_ EU É UM OUTRO, 2010-2012 dirigido por Altera Studio) incluídos em ‘Eu é um outro’, vê-se indivíduos ganharem coragem para comunicar. Não se trata da documentação da incapacidade de um grupo de pessoas por um artista capaz. Trata-se da documentação de uma habilidade: a habilidade de expressar o próprio Eu.

[ENG] _meneghetti and the art labs of santo egidio community                                _cristina cannelli (it)

At the beginning of the history of the art laboratories of the Sant’Egidio community – which today gathers hundreds of people with mental disabilities in Rome and other towns – there was an encounter with some people that lived a condition of marginality, if not exclusion and institutionalization. A relationship was established through the overcoming of the fear of diversity, weakness and other people’s misery. The “Amici” (Friends, the name chosen at a certain point of our path) lived under the burden of a prejudice that prevented them from freely expressing themselves, something that was already made difficult by their neurological, physical and social handicaps. 
While other actions of inclusion and defence were set in motion, we also decided to create  some “painting schools”: the objective was not only to fill up an educational gap, which was in any case a major concern, but above all to create a place for relation and communication in order to let – primarily through painting – that world of feeling, thoughts, abilities, aspirations, otherwise trapped by the handicap, emerge.
In 2010 we met César Meneghetti and the I/O _ IO E’ UN ALTRO (project) started, cured by Simonetta Lux and Alessandro Zuccari. The interpretation of Rimbaud’s sentence is undoubtedly subjective and arbitrary (but Rimbaud is certainly used to the most various interpretations of his sentence, explained in so many different ways). Nonetheless it helps us define the history of experimental laboratories and this process in progress with César Meneghetti, it helps us explain where we started and in what direction we are moving. 
Rimbaud says: “I is another. Wood becomes a violin”. And again, referring to the artwork “I watch it, I listen to it”. It seems to me that this last assertion referring to the artwork that, no longer completely controlled by the artist, comes to its own life and goes on its own journey, can help us define this process started by Meneghetti with the experimental laboratories Gli Amici as well as the history and the very imprint of the experimental labs: 
Actually the project, conceived in the artist’s statement like an open process, has led almost immediately, from the very first stage, to the shifting of the boundary of “normality” and, through an intense relation between the artist and a group of people with disabilities, has started to transform the subjects involved. So, there has not just been a vertical teaching progress; I would say there has mostly been a process that gave life to a revelation, obtained through art, by virtue of which those who are enclosed/shut up in the definition of being mentally disabled are something different compared to how we are accustomed to consider them: from “wood” to “violins” thanks to the possibility, at last given, of an encounter and a rediscovery of ourselves as men and women that think, have a value and can create. 
But in the end, this is a process that involves and transforms everybody: the artist, the curators, the video-makers, and the assistants... And the “wood” becoming a “violin” seems to be the true subject of the action, in a reciprocal discovery of beauty and of an interest present in the other.

[IT] _meneghetti e i laboratori d'arte della comunità di sant'egidio                            _cristina cannelli (it)

All’inizio della storia dei laboratori d’arte della Comunità di Sant’Egidio - che oggi riuniscono centinaia di persone con disabilità mentale a Roma e in altre città - c’è l’incontro con alcune persone che vivevano una condizione di marginalità se non di esclusione e istituzionalizzazione. C’è dunque una relazione che si instaura superando la paura della diversità, della debolezza, del dolore altrui. 
Gli Amici (è questo il nome scelto ad un certo punto di questo percorso) vivevano sotto il peso di un pregiudizio che chiudeva le porte alla libera espressione di sé, resa già difficile da handicap neurologici, fisici, sociali. Mentre si mettevano in moto altre azioni di inclusione e difesa si decise di creare anche delle “scuole di pittura”: l’obiettivo non era solo quello di colmare una carenza educativa e culturale , che pure riguardava molti di loro, ma soprattutto di creare un luogo di relazione e comunicazione anche per far emergere, primariamente attraverso la pittura, quel mondo di sentimenti, pensieri, capacità, aspirazioni altrimenti imprigionati dall’handicap. 
Nel 2010 avviene l’incontro con César Meneghetti e ha inizio I/O_ IO E’ UN ALTRO a cura di Simonetta Lux e Alessandro Zuccari. L’interpretazione della frase di Rimbaud è senza dubbio soggettiva ed arbitraria (ma Rimbaud si sarà abituato alle interpretazioni più diverse di questa sua frase, interpretata da tanti in tanti modi diversi). Ma aiuta a definire la storia dei laboratori sperimentali e questo processo in corso con César Meneghetti, aiuta, cioè, a spiegare da dove siamo partiti e in quale direzione ci stiamo muovendo.
Rimbaud dice: “Io è un altro. Il legno diventa violino”. Ed ancora, riferendosi all’opera d’arte “io la guardo, la ascolto”. Quest’ultima asserzione riferita all’opera d’arte che, non più controllata del tutto dall’artista, prende una vita e una strada propria, mi sembra possa aiutarci a definire questo processo avviato da Meneghetti con i laboratori sperimentali de Gli Amici ma anche la storia e l’impronta stessa dei laboratori sperimentali: il progetto, infatti, che nello statement dell’artista è stato concepito come un processo aperto, ha condotto quasi immediatamente nelle prime fasi a spostare il confine della “normalità” e, attraverso una relazione intensa tra l’artista ed un gruppo di persone con disabilità, ha iniziato a trasformare i soggetti coinvolti. 
Non solo dunque un processo d’insegnamento, verticale, che pure c’è stato; ma direi soprattutto un processo che ha dato vita ad una rivelazione, ottenuta attraverso l’arte, per cui coloro che vengono racchiusi/rinchiusi nella definizione di disabili  mentali, sono altro rispetto a come si è abituati a considerarli: da “legno” a “violini” nella possibilità finalmente data dell’incontro e della riscoperta di sé come uomini e donne che pensano, che valgono, che creano.
Ma alla fine è un processo che coinvolge e trasforma tutti: artista, curatori, abili/disabili, video-makers, assistenti... E il “legno” che diventa “violino” sembrano infine essere i soggetti stessi dell’azione, nel reciproco scoprire la bellezza e l’interesse presente nell’altro. 

[IT] _meneghetti e os laboratorios de arte da comunidade de sant'egidio                   _cristina cannelli (it)

No Começo, a história dos colaboradores da comunidade de Sant’Egidio – que hoje em dia reúne centenas de pessoas deficientes mentais em Roma e outras cidades – conta o encontro com pessoas provenientes de condições de marginalidade, para não dizer de exclusão e institucionalização. 
Portanto, existe uma relação que se impõe e vence o medo da diversidade, da fraqueza e da dor do outro.
Os Amigos (este o nome que acabou sendo escolhido no decorrer deste percurso), sofriam de um preconceito que acabava lhes fechando as portas para uma expressão mais livre de si, o que já era difícil por causa dos limites da deficiência neurológica, física, social. Ao criar condições que favorecessem a inclusão e o fortalecimento, decidiu-se criar a “escola de pintura”: o objetivo não era unicamente o de preencher uma carência educativa e cultural, o que envolvia a maioria deles, mas sobretudo gerar um espaço de relações e comunicação capaz de estimular, primariamente mediante a pintura, este mundo de sentimentos, pensamentos, capacidades, aspirações que, do contrário, restariam prisioneiros da deficiência.
Em 2010, depois do encontro com César Meneghetti, tem início o I/O _ IO E’ UM OUTRO, com curadoria de Simonetta Lux e Alessandro Zuccari. A interpretação da frase de Rimbaud é, sem dúvidas, subjetiva e arbitrária (mas Rimbaud já deve estar acostumado com as mais várias interpretações desta frase, interpretada por muitos e de muitas formas). Mas pode ser útil ao tentar definir a história dos laboratórios experimentais e este processo com César Meneghetti ajuda a entender de onde partimos e que direção estamos tomando. 
Rimbaud disse: “Eu é outro. A madeira vira violino”. E mais, com relação à obra de arte “eu a olho, eu a escuto”. Esta última asserção que se refere à obra de arte praticamente fora do controle do artista, pois vive uma vida e um caminho em si, me parece útil na interpretação deste processo iniciado por Meneghetti com os laboratórios experimentais de Os Amigos, assim como a história e a própria marca dos laboratórios experimentais: de fato o projeto, que segundo o statement do artista foi concebido como um processo aberto, causou desde sua primeira fase um deslocamento da fronteira da “normalidade” e, graças à intensa relação do artista com um grupo de deficientes, provocou uma transformação nas pessoas envolvidas.
Portanto, não apenas um método de ensino vertical, embora também o tenha sido, mas eu diria sobretudo um método que se revela mediante a arte, graças ao qual quem se encontra limitado pela definição de deficiente mental, demonstra ser outro com relação ao que estamos acostumados em defini-los:  de “madeira” a “violino, na possibilidade enfim atingida do encontro e da redescoberta de si, como homens e mulheres que pensam, valem e criam.
Mas finalmente, é um procedimento envolvedor que transforma todos: artista, curador, deficientes ou não, vídeo-makers, assistentes… E a “madeira” que vira “violino” acaba se parecendo com os próprios atores da ação, numa descoberta recíproca da beleza e do interesse presentes no outro.